Quando si parla di Vin Santo viene subito in mente la Toscana. Tipologie di Vin Santo vengono prodotte però anche in altre regioni, il Trentino ad esempio, o in Emilia Romagna.
Girovagando per i castelli dell’antico ducato di Parma e Piacenza mi sono trovato a salire per i colli della Val Stirone, il piccolo fiume che segna il confine tra le due province.
Si arriva a Vigoleno percorrendo una strada ben tenuta di curve e tornanti, attraverso il bosco. Siamo arrivati la sera verso le 18, e la differenza di clima con la pianura piacentina è veramente notevole.
Il borgo è completamente racchiuso all’interno del castello, ben tenuto e restaurato, dal portale principale alla chiesa di San Giorgio, alle case affittate per l’estate, alla fontana che si trova appena entrati nello spiazzo interno.
I camminamenti tra i torrioni sono splendidi, soprattutto per il panorama che mostra la vallata senza quasi cenno di civiltà moderna, con la strada nascosta dal bosco e nessun rumore di automobili. E credetemi, viene naturale spegnere il cellulare per non correre il rischio di disturbare l’aria di tempo antico che predomina tutto il paese.
Non potrebbe essere altrimenti, in verità.
La costruzione più antica è sicuramente la chiesa di San Giorgio che risale almeno al IX secolo, costruita ad opera dei Longobardi che veneravano l’uccisore del drago; attorno alla chiesa nacque poi pian piano il resto del borgo che venne fortificato man mano che cresceva la sua importanza fino a che nel 1141 il forte acquista il diritto di farsi difendere dal comune di Piacenza. Nella prima metà del 1200 la pieve diventa indipendente da quella di Castell’Arquato e per la sua difesa vi si insediano alcuni balestrieri piacentini.
Nel 1373 il castello viene conquistato dalle truppe di papa Gregorio XI durante la spedizione di punizione contro Barnabò Visconti per aver invaso le contee di Modena e Ferrara, ma fu ripreso nello stesso anno ed affidato dai Visconti a Francesco Scotti che ne fu nominato conte. Fino agli inizi del Novecento il castello rimarrà quasi ininterrottamente nelle mani di questa famiglia, e le vicende dei secoli, spostandosi lontano dalle valli e dai colli piacentini, non intaccheranno più di tanto la forma e la struttura del borgo.
La sua disposizione rispetto al sole, l’argilla calcarea di cui sono fatti i mattoni, rendono il castello diverso ad ogni ora del giorno, con colori caldi e dorati o più freddi ed austeri, e la sua ristrutturazione e manutenzione sono un ottimo esempio di come si possa gestire il fantastico patrimonio artistico, storico, culturale, dell’Italia dei Comuni.
Come tutti i castelli medievali, anche qui ritroviamo tutto il necessario per la vita quotidiana dei borghigiani: la cisterna dell’acqua, il deposito della farina e del grano, la ghiacciaia per la conservazione delle carni.

Le vigne che si vedono durante la salita verso il castello, tra i 170 ed i 390 metri slm, e poi dall’alto dalle sue torri, sono le uve bianche più tipiche della regione: la Malvasia di Candia, il trebbiano romagnolo, l’ortrugo, la marsanne (si, proprio quella dell’alta valle del Rodano da cui si ricava l’Hermitage…), il bervedino.

Ma oltre queste uve, a cui va aggiunto il sauvignon, ne troviamo altre due, zuccherine oltremodo, non aromatiche, che sono la Santa Maria e la Melara.
E’ proprio con queste ultime due che si fa il Vin Santo di Vigoleno; viene consentito, da disciplinare, solo un 40% di sauvignon, mentre il resto dev’essere composto dalle uve citate più sopra, e questo proprio a causa del loro elevato contenuto di zuccheri che, se non attenutato da uve non aromatiche, darebbe un vino eccessivamente dolce.
Il Vin Santo di Vigoleno non è un passito, ma un vero e proprio Vin Santo, usando quindi botti di legno, lievito madre degli anni precedenti, ed un affinamento non inferiore a 5 anni.
La Santa Maria e la Melara sono uve tipiche ed esclusive di questo territorio, tutto compreso nel comune di Verlasca, con altezze di impianto fino a 390 m, con una resa che non va oltre i 50 quintali per ettaro.
Nella produzione del Vin Santo di Vigoleno, le uve vengono fatte appassire in pianta fino al 1 dicembre quando si inizia la vendemmia, con un ulteriore appassimento sui graticci. Il mosto ottenuto ha circa il 28% di grado zuccherino, e viene poi lasciato fermentare in botti di legno che contengono ancora i lieviti rimasti delle produzioni precedenti. Le botti, in genere non più grandi di 500 litri, vengono poi mantenute in cantina da 48 a 60 mesi, a volte anche più.
La vera differenza tra un ‘vino passito’ ed un ‘vin santo’ sta essenzialmente qui, ossia nel lungo affinamento in botte e nell’uso del lievito madre delle annate precedenti, cosa che invece nei passiti puri e semplici (ed a volte semplicemente acidi e zuccherini…) non avviene.
La produzione totale della zona è veramente minima, parliamo di 12-15 ettolitri, ed assaggiando bottiglie di diversi produttori si notano immediatamente le differenze indotte soprattutto dal terreno, argilloso-calcareo sulle pendici verso il torrente Stirone, calcareo-sabbioso verso il torrente Ongina.
Ho avuto modo di assaggiare questo vino all’inizio ed alla fine della cena nel ristorante proprio di fronte al piazzale del castello.
La sera, sebbene fosse estate, rendeva gradevole l’uso di una giacca seppur leggera per coprire spalle e braccia.
All’inizio del pasto infatti siamo stati gratificati da un tagliere di formaggi stagionati a 24 e 36 mesi, salumi e prosciutti, ed il Vin Santo di Vigoleno di Perini accompagnava in maniera egregia il sapore sapido del formaggio ed equilibrava ottimamente il grasso dei salumi e la consistenza dei salumi.
Dopo un buon piatto di tortellini ai funghi, forse meno tipici ma squisiti, abbiamo finito con un piatto di biscotti secchi accompagnati nuovamente da Vin Santo.
Un terzo bicchiere (non guidavo io…) è servito esclusivamente da meditazione, osservando il cielo farsi via via più scuro ed ammirando le stelle che spuntavano dal velluto del cielo.
La differenza tra un vino moderno, con controllo attento di temperatura, selezione accurata dei lieviti, verifiche continue in laboratorio, ed un vino tradizionale, fatto con attenzione ma senza correggere la natura, è proprio la differenza che c’è tra una luce al neon ed il chiarore delle stelle.