Francine Van Hove, La fleur de vin, 1996
Francine Van Hove, La fleur de vin, 1996

L’olfatto scatena, in noi che scriviamo resoconti degustativi,  l’immaginazione più spinta per trovare descrittori che non siano i soliti, banali frutti rossi o gialli, pietre, sottoboschi o prodotti animali.

I migliori riescono a dare, con le proprie parole, una idea anche quantitativa degli effetti del vino nel palato, tanto che riusciamo, leggendoli, ad avere la precisa sensazione di cosa abbiano bevuto.

Ma la vista, il primo dei test organolettici a cui sottoponiamo il nostro calice, la vista viene spesso tralasciata, l’esame visivo troppe volte si ferma ad un paio di parole sul colore o alla larghezza degli archetti. Un breve accenno all’unghia più o meno violacea o porpora, e via con la rotazione e l’avvicinamento al nostro naso.

Eppure il colore del vino potrebbe dirci già molto, se non sulla sua bontà almeno sulla sua bellezza.

Guardo La fleur de vin, di Francine van Hove, e lascio andare i miei pensieri.

Far passare un raggio di sole attraverso un bicchiere, guardarlo mentre lo spostiamo all’ombra della cantina o lo portiamo di fronte ad un camino lasciando che le fiamme vi guizzino attraverso.

Oppure, semplicemente, giocare con la macchia purpurea che una luce proietta, attraverso il bicchiere, sul tavolo a cui siamo languidamente appoggiati, senza altri pensieri che muovere l’immagine del dito dentro l’immagine del liquido, ruotandolo attorno all’alone scuro, procedendo a spirale verso il centro dove il colore si manifesta grazie alle immutabili leggi dell’ottica.

La proiezione luminosa diventa così un circolo ipnotico, dove a muoversi è la nostra mano e non il bicchiere, come accarezzando l’ombra con l’ombra potessimo trovare le numerevoli proprietà del liquido, lasciando vagare i pensieri dentro il rosso acceso e guardandolo come si fa con il sole in un osservatorio a riflessione.

I nostri pensieri si immergono dentro al bicchiere, si perdono, rallentano ad un ritmo naturale, non incalzati dalle parole ma finalmente nudi e liberi di percorrere qualunque strada.

E’ sera, tardi, la lampada ancora accesa è l’unica luce della nostra vita, il bicchiere di vino è l’ultimo della giornata densa di avvenimenti i cui ricordi ci strappano un lieve moto delle labbra, quasi ad iniziare un sorriso che continueremo l’indomani, costruito per l’occasione.

E’ sera e le ombre sono nitide, tutto attorno è buio ed il riflesso del vino è l’unico punto fermo della nostra vita, continuiamo a ruotare il dito sopra l’immagine, lo avviciniamo e lo allontaniamo dalla tovaglia per guardarne l’immagine.

E’ sera, ed osserviamo ormai solo le ombre degli oggetti e dei nostri amori, non vogliamo più guardare le cose ma solo le loro forme oniriche, la proiezione del vino, la proiezione del dito, la proiezione dei nostri pensieri che, come il dito, ruotano attorno allo stesso punto fermo senza mai toccarlo, irraggiungibile come il riflesso vermiglio del vino; è lì ma non possiamo assaggiarlo, non possiamo annusarlo, non possiamo bagnarci.

Intingiamo un dito nel vino e coloriamo l’ombra per tentare di darle forma, spegniamo l’arsura assaporandolo lentamente ed infine torniamo a guardarne il riflesso.

Il gioco di sfumature non esiste più, adesso, e rimane solamente una macchia vermiglia sulla tovaglia bianca.

2 pensiero su “Il pennello ed il bicchiere: Francine van Hove”
  1. Molto bello, il quadro e lo scritto. Quest’ultimo è decisamente maschile, nello sforzo di immaginare le sensazioni di una donna.

  2. Grazie, è vero, mi è difficile intuire le sensazioni femminili. Cosa passerebbe attraverso la tua testa?

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