Augh

DiWine Roland

Mag 28, 2013

NavajosFa quasi tenerezza la perseveranza con cui affermati produttori e competenti enologi continuano a prendere a sassate il mondo del vino naturale. Quasi.
E dire che sono persone che il mestiere lo ben conoscono, come Cotarella (vabbè, dai) o, ultimo cronologicamente, Stefano Capelli, l’enologo di Cà del Bosco.
Gli spumanti di Annamaria Clementi mi piacciono, sono bevibili, leggeri, a volte anche soavi. Forse omologati, ma verso l’alto, tecnicamente ben fatti.
Leggere quindi l’intervista a Capelli sul blog di Luciano Pignataro mi fa strano, sembra quasi una sua difesa d’ufficio dei metodi che vengono usati per produrre i metodo classico di Ca’ del Bosco.
Nell’intervista, Capelli sostiene che i lieviti naturali tendono ad omologare il vino, perché sarebbero tutti uguali; usarne invece di selezionati consente di variare il gusto ed il profumo del prodotto finale. E’ un po’ quel che dice Luca Maroni (rivabbé, dai) quando consiglia i propri servigi per migliorare il vino prima dell’imbottigliamento.
Fin qui, potrei anche ascoltare (leggere) le parole dell’enologo Stefano Capelli, che sicuramente sa ben più di me di cosa si sta parlando.
Mi piace ad esempio il discorso che fa sulla solforosa, dando molta importanza all’igiene delle uve ed alla loro sanità sulla pianta.
Quello che trovo sbagliato nella logica del discorso è invece dire che i lieviti naturali tolgano il senso del territorio al vino perché la fermentazione dovuta ai lieviti indigeni sviluppa un insieme “di alcoli superiori, acetati e odori fenolici prodotti da questi lieviti non-saccharomyces. I vini prodotti in questo modo si assomigliano, quale che sia il loro terroir“.
Sembra quasi che voglia dire che dal terreno l’uva non trae niente, e nemmeno dall’andamento climatico della stagione, sembra quasi.
Posso anche capire che si scelgano lieviti selezionati perché altrimenti occorrerebbe molto più tempo per la vinificazione, o non si sarebbe sicuri delle tempistiche a cui avviene la fermentazione, o si potrebbero produrre sgradevoli odori che necessiterebbero più tempo per essere eliminati, costringendo così il produttore ad attendere due anni anziché uno per imbottigliare il proprio vino.
Un lievito selezionato dà sicurezza della partenza della fermentazione e dei suoi sviluppi; leggere che tra le caratteristiche è citata la resistenza alla So2, di solito superiore ai 130 mg/l, mi dà un po’ da pensare, invece.
Parlando con vignaioli artigiani, quelli che fanno il vino naturale, mi rendo conto del maggior lavoro che debbono fare in cantina e della grande attenzione alle pratiche di vinificazione: un errore non si può risolvere semplicemente aggiungendo una bustina magica.
Però, non mi si venga a dire che i lieviti selezionati rispettano il territorio più di quelli naturali, e questo vale per i vini fermi, per i frizzanti (bevuti da poco di eccellenti ad esempio a Naturale 2013 o a Sorgente del Vino) e per gli spumanti (devo citare Aurelio Del Bono di Casa Caterina, tanto per rimanere nella zona?).
Come ci ha raccontato Giampaolo Gravina durante il seminario a Navelli, in Borgogna inorridirebbero a sentir dire queste cose, dove spesso nelle cantine si trovano pareti piene di strati di famiglie di lieviti a volte centenari.
La mia personalissima definizione per un vino naturale è un vino che rispetta il tempo naturale, senza accelerazioni indotte, senza ritardi forzati.
Che abbia bisogno di attendere otto mesi in bottiglia o sessanta, bisogna lasciarlo lavorare almeno cinque anni in botte oppure solo sei mesi in acciaio, non importa.
E’ importante invece che segua il suo corso naturale.
E tutto questo turbo-correre, a dirla tutta, mi ha stancato parecchio.

Mica possono sempre vincere i cowboys.

Augh.

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