denominazioniLa matematica non è un’opinione, basta mettersi d’accordo su cosa e quando si misura.
Sul suo blog Donatella Cinelli Colombini, che tra le altre cose è anche presidente del Consorzio Orcia, ha riportato un articolo di Carlo Flamini apparso su Il Corriere Vinicolo in cui, basandosi sulla asetticità dei dati di Federdoc si sottolinea che il 98% del fatturato italiano del vino viene prodotto da appena 76 denominazioni, lasciando alle altre 327 il rimanente 2%.
Quindi, dice Flamini, gli sforzi per la ricerca e la posizione nei mercati internazionali dovrebbero essere dedicati (quasi) esclusivamente alle denominazioni più imbottigliate. Nell’articolo se ne riportano le prime dieci che producono da sole il 65% del vino italiano.
Dal canto proprio, Riccardo Ricci Curbastro, presidente di Federdoc, fa una proposta meno tranchant, suggerendo di accorpare alcune denominazioni tra quelle più piccole, così da creare una DO più ampia, una super-DO.
Devo dire con sincerità che quando ho letto l’articolo di Flamini, ho subito sgranato gli occhi con tanto di ‘Ohibò’ di prammatica.
Tra i commenti però, quello di Maurizio Gily, tra le altre cose direttore di Millevigne, mi ha fatto pensare.
E’ naturale che Donatella, da produttrice e da presidente del consorzio dei vini della Val orciad’Orcia, sia contraria alla dissoluzione delle piccole denominazioni ma il territorio dove opera è estremamente vocato sia alla produzione che al turismo, avendo oltretutto alle spalle una enorme storia, non esclusivamente vinicola.
Ma, chiede Maurizio, e quelle DO che non sono così fortunate, che producono poco e senza traino commerciale, quelle DO, a cosa servono?
Non mi sento di dare del tutto torto a Gily, così come invece il cuore sta con la tesi passionale di Donatella.
Negli ultimi anni le sole DOCG sono diventate ben 75, e sono servite in campagna elettorale per aggraziarsi i voti a questo o quel ministro (andatevi a guardare gli ultimi ministri dell’Agricoltura o come si chiama ora). Che senso ha?

fascettaLitriIl sistema delle denominazioni è stato, se possibile, ancor più frammentato con le Menzioni Geografiche Aggiuntive, orribile termine che in teoria doveva sdoganare legalmente quello che i francesi definiscono cru.
Dall’altro lato, si sono costruite le DOC regionali, come la DOC Sicilia o la DOC Toscana, dove alla fine un po’ tutti quanti quelli che producono vino possono entrare a far parte.
Così, se da una parte abbiamo una individuazione delle zone di eccellenza tramite le MGA, dall’altra si vedono parcelle appena nate che possono fregiarsi, quanto meno, della Denominazione di Origine Controllata.
Torniamo un attimo ai numeri, anzi, a I Numeri del Vino.
Se consideriamo il fatturato, al primo posto troviamo GIV, che nel 2012 ha avuto un fatturato di 372 milioni di €, ed al secondo posto abbiamo CAVIRO con 284 milioni di €.
Quindi stiamo parlando dei grandi gruppi industriali e non di singole case vinicole. In base a questa classifica, dovremmo dire ai vari produttori, di portare direttamente le proprie uve a questi grandi gruppi e smetterla di fare vino proprio.

E se consideriamo il report The Power 100: the World’s most powerful spirits & wine brands 2013 che si può scaricare da The Drinks Power Brands,  che per quel che riguarda il solo vino troviamo ancora sul blog di Marco Baccaglio, ci rendiamo conto che siamo piccoli piccoli.

A mio avviso non possiamo confrontarci sempre con quelli più grossi di noi, come Argentina o Cile citati da Flamini. Altrimenti arrivano gli americani e con un sol colpo ci spazzano via, gli stessi americani che non credono nell’esistenza del territorio, nel senso del terroir, visto che loro non ne hanno nemmeno uno da mostrare.

La questione posta da Il Corriere Vinicolo è però senz’altro seria e ragionata, suffragata da numeri che, giriamoli pure un po’, dicono proprio quel che è scritto nell’articolo, e va presa in considerazione tentando, per quel che è possibile, di lasciare un po’ lontano il cuore.

Non penso che si risolva il problema facendo semplicemente ‘evaporare’ le piccole zone di produzione.

Se alcune denominazioni più piccole non hanno la forza per andare sui mercati esteri, per costi o per volumi prodotti, bene, non lo facciano.
Possono invece fare una cosa, far venire il mercato estero da loro.
Come dice Donatella, il turismo nelle campagne toscane è cosmopolita, e chi visita la Toscana si ferma nelle città d’arte e nelle campagne, dove potrebbe (il che non sempre è vero, purtroppo) gustare vini spettacolari a prezzi decenti.
La stessa cosa vale per qualunque altra zona d’Italia in cui il vino non è il principale attrattore o creatore di ricchezza, ma fa parte di quel circuito positivo costituito dalla bellezza dei paesaggi, dai suoi musei, dalla qualità della vita che passa, anche, dalle sue trattorie e dalle sue cantine. Dalle sue chiese, dalle sue mostre itineranti. Dalle sue industrie.
Se guardiamo esclusivamente il fatturato, ha ragione Flamini e con lui Maurizio Gily.
Però dovremmo capire che quel che sta portando (se già non è così), l’Italia verso il basso di ogni classifica è il volerci confrontare con i grandi paesi, come la Cina (per quel che riguarda il manifatturiero, ad esempio), gli Stati Uniti, l’Argentina, il Brasile.
L’errore è qui, sempre secondo me.

Noi abbiamo prodotti di una tale varietà che altri nemmeno si sognano.

Se vogliamo confrontarci con tutto il resto del mondo, abbiamo due scelte.

O, come ci racconta Decanter,  piantare Merlot e Cabernet Sauvignon ed espiantare persino il Trebbiano, o valorizzare bene tutto quel che abbiamo, evitando di farci concorrenza tra chi gestisce un museo ed un agriturismo, ma lavorando insieme per portare, finalmente, il mercato da noi invece che fare il contrario.

3 pensiero su “Denominazioni numerose”
  1. Veramente Argentina, Cile e USA sono molto più piccoli di noi. Almeno in una cosa l’Italia è grossa: e questa cosa è il vino. Lasciamo stare i commercianti di vino (Diageo, Pernaud-Ricard, LVMH….quelle sono multinazionali). Nella produzione noi siamo i più grossi assieme a Francia e Spagna. Smettiamola di dire che siamo piccoli, perché non è vero. Poi certo, la nostra produzione è molto parcellizzata rispetto a Argentina, Cile, Australia etc etc, ma questo è un plus dal punto di vista del marketing; nel senso che i vini Italiani hanno successo, così come i francesi, proprio perché offrono una grande varietà di denominazioni e di produttori: bere vino è divertimento, e con l’ampiezza di scelta mi diverto di più. E poi per favore non diciamo che in USA non c’è terroir : andatelo a dire a produttori come Talinda Oaks, Mathis, Jim Clandenen o a Ray Kaufmann (che è un winemaker) !

    E il fatturato guardiamolo eccome…. assieme ai costi però.

  2. Sicuramente, i numeri danno immagini differenti in funzione di quel che si cerca, dati ce ne sono in quantità per dimostrare tutto ed il suo contrario.
    Se prendiamo solo il numero di bottiglie, come dice Il Corriere Vinicolo, allora hanno ragione CAVIRO e GIV. Se prendiamo la storia passata, però, alcune (non tutte: alcune) denominazioni, benché piccole, hanno prodotti di qualità quasi assoluta.
    Grazie delle puntualizzazioni, Fabio.

  3. Certo. E comunque il fatto che ci siano tante denominazioni, dal mio punto di vista di venditore non è un problema, anzi. Se c’è una storia dietro la denominazione e non una semplice trovata commerciale allora si può costruire qualcosa. Ripeto la ricchezza di varietà, di vini e di territori è un grande opportunità. Grazie a te.

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