A parlare di Borgogna non basterebbe un libro per descriverne la storia ed i vini, che per questa regione sono a tutti gli effetti la stessa cosa.
Le distese di viti che si appoggiano lungo le colline fanno venir voglia di bere i suoi vinii, di assaporarli lievemente e poi tuffarsi nell’intreccio di sensazioni che i vini di Borgogna son capaci di far nascere.

Sidonie-Gabrielle Colette nasce a Saint-Sauveur-enPuisaye nel 1873, distretto della Yonne, a due passi dalla Còte d’Or e da Chablis, potremmo dire tra Pinot Noir e Chardonnay: “c’è ancora, nel mio paese, una valle stretta come una culla dove, la sera, si stende e danza un filo di bruma coricata sull’aria umida…”.
Personalità inquieta, Colette sembra sempre alla ricerca di una sua identità, pronta a svestirsene subito dopo.
Il rapporto con la sua terra è profondo, soffre molto quando se ne dovrà allontanare per andare ad abitare prima a Chatillon-Coligny e poi a Parigi con il primo marito.
L’amore per la natura le viene trasmesso dalla madre, Sidonie, a cui dedicherà il romanzo Sido; qui c’è una bella descrizione di due sorgenti, e se non sapessimo che si parla d’acqua potremmo quasi confonderle con il resoconto di degustazione di due vini provenienti dallo stesso vitigno, ma con caratteri diversi: “…Una sgorgava da terra con un sussulto cristallino, simile a un singhiozzo, e si tracciava un suo letto sabbioso, ma si scoraggiava appena nata e tornava ad immergersi sotto terra”.

Viene in mente, può apparire in mente, l’immagine di un vino che sia esplosivo nei profumi appena accostato al naso, aromi che però si perdono subito dopo lasciando infine, anche al palato, poche vere sensazioni e, in definitiva, solo una promessa mancata; “….l’altra sorgente, quasi invisibile, strisciava sull’erba come un serpente e si allargava segreta in mezzo ad un prato, dove l’unico segno della sua presenza erano i narcisi che le fiorivano tutt’intorno”.
Qui invece potremmo usare le stesse parole, le stesse identiche frasi nella descrizione di quei vini che non sembrano avere subito un impatto olfattivo importante, profumi leggeri ma non immediatamente riconoscibili, che ci spingono ad assaggiarne ed odorarne una seconda volta, più attenti alle modificazioni degli aromi, alla lucidità dei sapori ed alla consistenza, alla complessità non ostentata.
Così conclude il brano Colette: “La prima sapeva di foglie di quercia, la seconda di ferro e gambi di giacinto. Ogni volta che ne parlo mi auguro di avere la bocca colma del loro sapore nel momento in cui tutto finirà, e di portar via con me quella sorsata immaginaria”.
Anche il suo modo di lavorare ricorda un produttore di vino; quando le viene chiesto come lavora ai suoi libri lei risponde che è “…un’artigiana, una funzionaria… tremila pagine sprecate per arrivare a duecentocinquanta ben limate”.
Non ricorda forse la potatura, la scelta delle gemme, dei grappoli in fase di vendemmia? Migliaia di viti per una resa di qualche decina di quintali, e nel vino è compreso anche il patrimonio di quelle gemme e di quei grappoli che sono stati sacrificati.
La sua scrittura può essere definita in forma di “viticci”, una sua stessa definizione della sua produzione, un intreccio tra ardore e ritrosia, fra ricordi e sensazioni, tra il senso ed i suoni.
E’ l’inizio de Les vrilles de la vigne (I viticci della vigna), del 1928, in cui racconta di un usignolo che, per non farsi soffocare nel sonno dai viticci della vite dove stava, cantava tutta la notte solo per rimanere sveglio. Colette quindi scrive e grida per non addormentarsi più, così da non doversi svegliare dai sogni felici ed ingenui della gioventù.
Nel 1926 Colette andò ad abitare a Saint-Tropez, ne La Treille Muscate, (Il pergolato del moscato), dove scriverà anche un romanzo da cui prende il nome la sua residenza.
Il casale è in piena campagna provenzale, un orto che fornisce frutta e verdura di ogni genere, e naturalmente uva con la quale si produce un rosé vivace, fruttato, tipicamente provenzale, con cui si accompagnano bene le pietanze che Colette amava cucinare. In Prisons et paradis, 1932, una raccolta di dodici suoi scritti, compaiono le descrizioni olfattive e gustative dei piatti con cui allietava gli amici che la venivano a trovare.
Amò sempre il vino, che beveva con moderazione e soprattutto con rispetto, passando dai vini più famosi a quelli più umili, dal Beaujolais al Pommery, dal Jurancon allo Chambertin, dal Vouvray allo Chateau d’Yquem: “…un buon vino di Cavalire, giovane, con un retrogusto di legno di cedro, un getto di caloroso vapore che fa risvegliare le vespe...” (La nassance du jour, 1928).
Sa tradurre i colori e gli aromi del vino con calore e precisione dei termini,  leggere i brani dove Colette narra di vino è arricchirsi di un patrimonio di parole in modo più istruttivo ed attraente della maggior parte dei manuali di degustazione.
“[…] posare uno sguardo
lieve come una carezza
sulla sagoma
indimenticabile
delle montagne
bere con un sospiro
di esitazione
il vino aspro
del sole nuovo…
….Vivere ancora!

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