treno_2707Sono trascorsi molti anni da quando ho fatto l’ultimo viaggio notturno in treno, in un vagone a scompartimenti come ormai ne esistono solo, o quasi, negli Intecity Notte.

La giornata è trascorsa molto piacevolmente, esco da #ViniVeri 2013 a Cerea con buoni appunti di degustazione, la solita buona qualità delle etichette portate dai produttori, il capannone dove tutto è a vista, naturale, senza dover cercare niente dietro le colonne, oltre i muri. 

Il treno parte tardi, l’ho scelto apposta per poter assistere alla conferenza sull’etichettatura possibile dei vini naturali; ne parlerò, credo, più avanti, ma molto di sfuggita. 

Rimane da aggiustare il resto della serata; incontro Raffaella in sala, fuori in piazzale Riccardo La Ginestra con Stefano Amerighi (che bello il suo Syrah 2010, sia in magnum che nella bottiglia, l’Apice) propongono di andare, insieme ad una truppa di credo altre quindici persone, verso Mantova. Rapidi sguardi d’intesa, decidiamo di andare direttamente a Verona a cenare: Raffaella l’indomani ha il tour de force del Vinitaly, io ho un treno da prendere alle 23.36, ma soprattutto poca voglia di concludere la giornata continuando a parlare di vino.

Le parole usate davanti ad un discreto piatto di carne alla brace non hanno costruito discorsi enologici, se non di sfuggita; ecco perché è stata una ottima serata, non lo sarebbe stato senza l’ottima compagnia di Raffaella.

Alle dieci di sera arrivo a Verona Porta Nuova, ho un’ora e mezza da trascorrere osservando l’umanità varia, a volte avariata, che compone il panorama di ogni posto di confine come lo è una stazione di notte.

Una donna ha in braccio un bambino che piange a ritmo di contrappunto con i rutti di un ubriaco dall’altro lato del corridoio, due bambini che insieme non fanno due cifre seduti composti sui seggiolini metallici, si tengono per mano e guardano la mamma che parla al telefono.

La barba incolta ed i capelli arruffati di un uomo che dorme su una panchina si mescolano con una sciarpa a quadri grigi che gli incornicia la testa, un borsone con un indistinguibile marchio scolorito stretto al petto come un piumone. L’altoparlante fa di tutto per costruitre una malfatta cornice del quadro, parlando di treni che arriveranno o che stanno per partire, la voce piatta degli annunci è in tinta con il panorama umano.

Io mi aggiro per il corridoio, salgo le scale che portano al mio binario, il 7, guardo l’ora e la confronto con quella di un orologio fermo, rassicurato dal moto delle mie lancette.

Un signore ben vestito, cappotto scuro a coprire giacca e cravatta, legge Wine Spectator sfogliando pigramente le pagine, soffermandosi su un articolo e poi continuando a girare le patinate. Posa la rivista per guardarmi mentre gli passo davanti, esco fuori dalla stazione in tempo per vedere due poliziotti spingere fuori un tipo evidentemente ubriaco, non lo fanno con cattiveria, è routine per loro, e quando l’uomo è fuori dalla stazione i due gendarmi si fermano a guardarlo mentre si allontana camminando al contrario.

Lui si è pisciato addosso, le due guardie si accendono una sigaretta parlottando tra loro, decido di andare al cesso e mi costa 80 centesimi. 

Manca mezz’ora al mio treno, vado su ed aspetto seduto su un sedile di marmo mentre guardo i miei compagni di viaggio, magrebini, cingalesi, un paio di senegalesi, due ragazze cinesi, tre ragazzi calabresi, una comitiva di Viterbo.

Due signore parlano tra loro in uno stranissimo idioma, che per eliminazione capisco essere bresciano. 

Arriva il treno, si sale, la fila lungo il corridoio ogni tanto si ferma: una donna si ferma ad ogni scompartimento per confrontare i numeri segnati sulla porta con quelli riportati sul proprio biglietto. Posa le valigie, prende la borsetta e la apre, tira fuori il tagliando e controlla. Poi ripone il foglietto di carta, riprende le sue valigie e ripete la scena di fronte allo scompartimento successivo. Nessuno si lamenta, si aspetta tutti con calma. 

Che differenza rispetto ai viaggiatori del treno della mattina, il Freccia Argento che mi ha portato, in sole tre ore, da Roma a Verona.

Trovo il mio posto, saluto gli occupanti, le uniche parole che scambieremo durante il viaggio sono buona sera, permesso, scusi, arrivederci.

Il treno aspetta, non ha fretta di notte, finalmente parte appena dopo che l’orologio del binario ha fatto passare la mezzanotte, lasciando scorrere fuori dal finestrino la strana vita di quel pianeta che è la periferia delle città di notte, strade color del buio, le luci gialle dei capannoni industriali.

Io sono il guardiano notturno che fa il giro con il ciclomotore, sono il cameriere che torna in auto dopo una giornata di lavoro, sono la donna in vestaglia fuori dal balcone mentre fuma la sua sigaretta, sono il casolare diroccato in mezzo alla campagna mentre cadono i mattoni, sono la strada buia con le macchie gialle dei lampioni, sono le due finestre illuminate in cima alla collina che paiono due pianeti, la signora che dorme accanto a me, il marito che russa di fianco, le due ragazze che chattano e ridono piano, sono il senegalese sullo strapuntino mentre beve dal thermos. 

La notte sul treno è voce bassa, è luci sfuggenti, è intimità non richiesta, è rumori corporei sfuggiti dal sogno, è la radio in una cuffia mal messa che trasmette parole del mattino, è l’urto improvviso dell’aria di un treno in corsa in senso opposto, sono le strisce bianche ondulate delle gallerie.

E’ cercare il ricordo dei profumi dei vini bevuti, delle voci degli amici incontrati e dei ragionamenti tra un formaggio ed un affettato.

La stazione di Nogara, poi Bologna, il treno si ferma e l’incanto termina, si aprono leggermente gli occhi bene abituati al buio, le orecchie infastidite dal lontano rumore dell’altoparlante.

Il sonno inizia ad esercitare il suo potere e Firenze, Arezzo, vengono ricordati solo dai fumatori che scendono dal vagone per brevi tirate veloci.

Poi ricomincia il ritmo maternamente cullante del treno, ognuno si canta la propria ninna nanna mentre le gambe trovano automaticamente la posizione libera per potersi allungare, la testa è solo un contenitore di pensieri e la temporanea posizione comoda del capo fa addormentare all’istante, poi risvegliare, cambio posizione, riaddormentarsi, e di continuo così fino a che la stanchezza prende il sopravvento e si dorme, finalmente, di sonno profondo. 

Ma ormai siamo arrivati, tutti lo stesso luogo e destinazioni differenti, i vagoni vengono staccati e vanno a far parte di altri convogli.

E’ giorno, il viaggio è terminato.

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