Denavolo a NavelliUno dei vini che ho (ri)bevuto molto volentieri in questa estate è stato il Dinavolino di Giulio Armani, azienda Denavolo; il tappo riporta l’anno, 2010, visto che essendo come denominazione un Vino da Tavola, non può avere l’indicazione dell’annata in etichetta. Perché poi non l’ho mai capito, ma così è.

I vini di Giulio tendono all’estremismo, ma si fermano sapientemente prima di essere eccessivi; non sono vini semplici, e nemmeno il Dinavolino lo è, o forse, al contrario, siamo ormai tanto diventati sofisticati che qualunque cenno di semplicità viene preso per stravaganza.

Giulio, quando ti guarda mentre assaggi uno dei suoi vini, sembra sempre che ti voglia poi interrogare per sapere cosa hai trovato, le tue sensazioni; lui è di poche ma diritte parole, e quando ti spiega i suoi vini non bisogna perderne nemmeno una, tanto le sue frasi sono concentrate. Poi ti rendi conto che ti ha aperto i suoi segreti, ti ha spiegato, ti ha fatto entrare in cantina con le sue poche parole, e ti ha fatto un gran regalo. 

Anche i suoi vini sono così, concentrati, hanno bisogno di tempo per dare il meglio, per farsi

Dinavolino
Lo stand di Denavolo a Navelli 2013. Il particolare a sinistra non è di Giulio

capire; una volta scardinati i profumi, il gusto, vanno giù che è un piacere e non è più solo un esercizio degustativo, ma una vera e propria goduria che riempie occhi, naso e gola.

Il Dinavolino è, potremmo dire, un vino orange, tanto è color miele nel bicchiere; le bucce si sentono coi tannini al palato, il tempo occorrente è quel che serve per lasciare che la evidente volatile si amalgami con il resto dei profumi e dei sapori, l’attento controllo della volatile è voluto da Giulio per conferire maggior freschezza al suo vino.

Il vino viene prodotto con Malvasia di Candia aromatica, tipica delle vallate tra Parma e Piacenza, la Marsanne, importata dai francesi durante le guerre napoleoniche, l’Ortrugo, altra uva indigena di queste terre, ed un vitigno non ben identificato, piantato nella parte più bassa della vigna.

Nessuna filtrazione o travaso, lieviti assolutamente indigeni e fermentazione spontanea, assolutamente nulla di solforosa, niente controllo della temperatura.

Tutto questo porta ad un vino di color miele di castagno, ambra a volte, con la luce che si perde all’interno del bicchiere e ne fuoriesce a fatica; la leggera velatura che compare non è indice di difetto, ma causata dalle particelle in sospensione poiché, come dicevo, non viene filtrato e nemmeno travasato.

Il naso viene colpito subito dalle sensazioni citrine, l’acidità del lime ad esempio, ma emergono anche note più morbide, tè verde, ad esempio, miele, nocciola, fiori bianchi. L’ossigenazione toglie la volatile iniziale, che in ogni caso rimane come portante degli aromi.

Ha una buona bevibilità, non è estremo come potrebbe sembrare, anzi, il tannino regala solo un po’ di astringenza, mentre la parte principale la fa l’acidità, rendendo il vino fresco e profumato il palato. Va giù molto bene, ed ha un finale lievemente amarognolo. 

Bevibile su un sacco di cose, pane nero e culatello in primis, non sarebbe male con un bel brodo di tortelli, magari insaporiti da noce moscata.

 

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