Per qualche motivo negli ultimi mesi sto diventando scettico su parecchie cose.
Sarà l’atmosfera di crisi-non crisi che si respira in Italia, la mancanza di viste sul futuro e soprattutto le parole senza senso di tecnici e governi di larghe intese, o più semplicemente sarà che, con gli anni, tendo a non credere più a quel che ascolto in giro, ed anche a farmi influenzare molto meno dalle parole d’ordine.
Una delle tendenze che più mi danno da pensare, ad esempio, è quella dei vini macerati, ossia (lo dico per quei due o tre che leggono le Storie e non sanno cosa siano) vini, bianchi in genere, ma anche qualche rosso, che rimangono a contatto con le bucce molto più di quanto sia normale.
L’estrazione dei componenti, polifenoli e tannino in primis, rende i vini così fatti molto particolari, già iniziando dal colore: i bianchi soprattutto, assumono un colore che va dalla buccia di cipolla al ramato.
I profumi sono sicuramente più intensi, tendenti, generalmente, alla frutta secca, all’albicocca, la carruba: tutti quei profumi, con intensità minore e meno mielosi, che a volte si riscontrano nei migliori passiti. Anche qui, mi perdonino gli amici esperti che stanno leggendo: è giusto per dare un’idea a chi questi vini non li ha mai assaggiati.
Qualche nome, giusto per dire i miei riferimenti: il Vej 2005 di Podere Pradarolo, l’Ageno de La Stoppa, il Dinavolo 2007 di Denavolo (ancora Giulio Armani), il Baccabianca 2006 di Guido Zampaglione, il Pinot grigio di Klinec e la Ribolla gialla di Terpin. Ne dimentico certo tanti altri (Gravner, Skerlji, Radikon…) ma insomma direi che con questi ci siamo.
Il gusto poi è qualcosa di spiazzante, per chi si aspetta un vino bianco, conta molto il vitigno e la mano del produttore; presenza tannica, morbidezza meno invasiva, mineralità territoriale e varietale, le sensazioni sono tutte amplificate. Nel male e nel bene, ovviamente.
Ultimamente ho letto in altri blog discussioni sui vini macerati, molto spinti, che spesso si trovano in giro per degustazioni: negli ultimi tempi ogni evento enologico, specialmente sui vini naturali, può vantare la presenza di almeno un paio di banchi con vini macerati a lungo sulle bucce, non proprio Orange Wine, piuttosto Yellow Wine, vini gialli. Tra le varie discussioni, potete leggere il post di Luigi Fracchia (@LuigiFracchia) ed i commenti su Gli amici del Bar.
La mia opinione, forse un po’ troppo tranchant, lo ammetto, è che molti produttori hanno visto che il vino macerato inizia ad avere un certo seguito anche al di fuori dei soliti girovaghi delle fiere, e ci si sono buttati a capofitto, ottenendo non sempre risultati bevibili.
E’ quello che accadrà il prossimo anno con i Vini Biologici, dove sicuramente vedremo cantine che hanno sempre aggiunto di ogni, in cantina, fregiarsi della scritta ‘Biologico’ sulla propria etichetta.
O l’annosa, mai risolta e senza soluzione, questione sui solfiti si, solfiti no; ora tutti a fare vini senza aggiunta di solfiti, che va di moda.
Pur non essendo un enologo, capisco bene anche io che questo si può fare, macerazione, eliminazione dei solfiti, biologico, se il produttore ha non solo una sua solida tradizione e capacità di lavorare l’uva ed il vino in quel modo, ma soprattutto se hai le uve adatte.
Non tutte le uve sono idonee ad una vinificazione con lunga permanenza sulle bucce, non tutti i vini migliorano se prodotti in quel modo.
Così diventa anche questa, come d’altra parte è normale in un mondo dove, alla fine, il vino lo devi anche vendere, è normale dicevo tentare di seguire le mode del momento, senza magari una adeguata preparazione o esperienza in quel tipo di lavorazioni.
Questo non significa però che il vino prodotto sia necessariamente piacevole, ed ormai la scusa che lo straccio bagnato che si sente sia indice di naturalità è diventata piuttosto stantia.
Ci sono annate dove, forse, un contatto più lungo con le bucce migliora un vino che altrimenti sarebbe leggero nei profumi e nei sapori: ottima scelta, in questo caso.
Ma sforzarsi a seguire una moda senza averne le capacità, significa forse vendere qualche bancale in più del proprio vino, ma certo non fa aumentare l’affidabilità di quel produttore.
Il consumatore del sabato, quello che il vino lo compra al supermercato ed entra in enoteca al massimo a Natale e Pasqua o se deve fare un regalo ‘alternativo’, non conosce i vini macerati, non li vuole, non li capisce, lo destabilizzano: a quel tizio lì, al ragioniere di Galbiate, fratello della casalinga di Voghera, gli devi dare un bel bianco profumato o un rosso con bei muscoli, non gli devi star tanto a menarla sui profumi terziari, la protezione data dalla macerazione lunga sulle bucce, sullo svolgimento o meno della malolattica: egli non sa nemmeno che sia, tutta questa roba lì.
Ed il ragioniere fa parte del grosso degli acquirenti, quelli che vedono un bel Fontana Candida o al massimo un Casale del Giglio (tanto per rimanere qui nel Lazio), li conoscono, li bevono al ristorante di fiducia che tanto ha solo quelli, e li tracanna senza domandarsi nulla sull’annata o sul contenuto di acidità, se la botte è di secondo o terzo passaggio o se in vigna venga fatto il sovescio.
Chi produce vini macerati perché va di moda, sarà tentato allora a ‘migliorare’ il proprio vino, per renderlo più compatibile con i gusti della plebe, snaturando la tipologia di vinificazione e, alla fine, mandando a ramengo tutte le belle chiacchiere sul terroir che si sentono fare in radio ed in televisione.
Sono ancora le guide a spostare i soldi del consumatore su un’etichetta piuttosto che un’altra, così le cose son due: o si investe tanto in comunicazione, così da dare un minimo di conoscenza al ragioniere di cui sopra, oppure si lascia che il divario tra chi solamente beve vino e chi invece lo apprezza aumenti sempre di più.