Ecco nuovamente la rubrica del mercoledì, questa settimana eccezionalmente di giovedì, sulle notizie che più mi hanno colpito riprese dall’aggregatore Paper.li.

  Iniziamo con una lunga ed interessante inchiesta di Lauren Mauwery su Palatepress riguardo al prezzo del vino in Sudafrica. L’articolo, diviso in due post, riprende e sottolinea le conseguenze sociali dei bassi prezzi del vino che i produttori sudafricani continuano a praticare, conseguenze soprattutto sugli agricoltori che lavorano nelle grandi cantine. Il pensiero centrale di Lauren, che mi sento di condividere in pieno, è che non è possibile vendere un vino a 11,99$ se invece dovrebbe costare 20$. Il prezzo, cosa valida per ogni oggetto in commercio, da uno smartphone ad una lavatrice, non è più costituito dal costo+guadagno, ma semplicemente da quanto i clienti sarebbero disposti a spendere per acquistarlo. In questo modo, però, un lavoratore della terra non ha nemmeno la possibilità, dopo una settimana di lavoro, di prendere un treno per andare a trovare un parente a 500km di distanza, perché il biglietto del treno (pensato per i ricchi) costa quasi quanto la propria paga.  

Il KansasCity Star dedica un post al ricordo di Serge Hochar, il proprietario di Chateau Musar scomparso il 31 dicembre del 2014 durante un incidente in mare. L’articolo è la riproposizione di una intervista di Doug Frost al vignaiolo libanese, mettendo in risalto come M. Hochar abbia saputo restare a produrre vino in Libano nonostante la guerra civile. Una grande lezione di perseveranza ed amore per il proprio mestiere, sintetizzato dall’idea che Hochar aveva del vino: “Il vino è una cosa viva”. Alla salute, M. Hochar. 

Ora, qui a Storie del Vino non vogliamo certo esaltare l’uso indiscriminato dell’alcool; anzi essendo winelovers, siamo convinti che Poco e Buono sia la filosofia migliore quando si beve del vino. Ancor di meno, pur non essendo certo né proibizionisti né tantomeno moralisti, si vuole esaltare la capacità terapeutica della cannabis. Riporto solamente un articolo, comparso in The Drink Business, sulla proposta fatta su The Cannabist da Ben Parsons, proprietario della Infinite Monkey Theorem (ed il nome è già tutto un programma), dell’intenzione di organizzare una serie di cene in cui si cercheranno i migliori abbinamenti tra il vino e la cannabis. Insomma, mi sembra al di là di tutto, una proposta piuttosto fuori dalle righe, sebbene molti stati degli USA stiano iniziando a depenalizzare la cannabis soprattutto per l’uso terapeutico. Vorrà dire che il prossimo corso da Sommelier lo andrò a fare direttamente in Giamaica.

C’è la crisi del petrolio, si tende a produrne poco per tenere alti i prezzi, le automobili consumano sempre di meno. Così in Texas devono trovare qualche altra cosa da fare. Perché non il vino? Ci spiega Christy Canterbury MW su Snooth, che il Texas produce vino da ben prima che la California, solo che prima la guerra d’indipendenza, poi la Guerra Civile, distrussero parte delle piantagioni; per completare l’opera ci si mise anche il Volstead Act, ossia il Proibizionismo, ad abbattere la vocazione vinicola dello stato della Stella Solitaria. La prima cantina dell’era moderna è solo del 1976, e bisogna attendere il 1990 per avere un numero di produttori più alto che non prima della caduta enoica texana. Sarà così, non lo metto in dubbio. Però preferisco non pensare alle trivelle usate in vigna. I texani ne sarebbero capaci.

 

Già in alcuni numeri precedenti di questa rubrica ho sottolineato della grande vivacità che sta vivendo il vino inglese. Per carità, ancora mi sembra strano mettere la parola ‘vino’ e l’aggettivo ‘inglese’ nella stessa frase, ma questi sono i fatti. Tant’è che la Hambledon Vinery, cantina dello Hampshire, ha chiesto 2.75 milioni di £ utilizzando una formula di crowdfunding in cui offre ai propri sottoscrittori delle obbligazioni sulla proprietà. I bond garantiranno fino ad un 8% di interesse annuo, se mantenuti per i 5 anni di durata del prestito obbligazionario, ed insieme agli interessi arriveranno ai sottoscrittori anche un certo numero di bottiglie della loro Classic Cuvée. Eh già perché, dice il proprietario, il terreno delle vigne è praticamente uguale a quello della Champagne. A quanto pare gli inglesi gli hanno creduto, visto che il prestito ha superato la cifra richiesta ed è arrivato fino a 3.5 milioni di £. Tutti intenditori, più di economia che non di vino, questi inglesi.

 

Di norma non sono in accordo a quanto scrive Tom Wark su Fermentation, ma stavolta devo dargli ragione, se non altro perché difende una categoria, quella dei wine blogger, spesso piuttosto bistrattata. Il buon Tom risponde al discorso di apertura di Karen MacNeil alla Wine Bloggers’ Conference 2015 e riportato su The Hosemaster of Wine. La signora MacNeil, autrice di The Wine Bible, il monumentale tomo (904 pagine) dove si spiega tutto, ma proprio tutto, about wine, nel suo discorso ha affermato che noi piccoli wine blogger dovremmo semplicemente smettere di scrivere di vino, anzi, di ‘battere le dita sulla tastiera’ (typing about wine), perché tanto non ci leggerà nessuno, perché non siamo capaci di scrivere, perché le nostre recensioni e le nostre note di degustazione sono spesso ridicole e incomprensibili. Vorrei rispondere alla signora che, se fosse proprio vero, a me non mi leggerebbe nessuno, e che alcuni blog (soprattutto negli USA) non avrebbero accessi da 50mila o 80mila lettori al giorno. E questa volta Tom Wark gliele canta per bene.

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