Sebbene il numero delle varietà delle uve italiane sia di gran lunga più ampio di quelle francesi, i vignaioli d’oltralpe sanno meglio di noi come fare a valorizzare il loro patrimonio. Molto è dovuto alla differente legislazione, limata e raffinata in oltre duecento anni di storia.
I vigneti internazionali, ad esempio, sono quelli tipici francesi, chardonnay, cabernet sauvignon, merlot, syrah.
Questa, che commercialmente è una loro forza, in teoria potrebbe divenire anche la nostra: se si vuol bere un Morellino di Scansano, ad esempio, fatto con sangiovese, alicante, ciliegiolo, non lo trovi certo in Nuova Zelanda, così un cannonau proveniente dal Sudafrica potrebbe far sorgere molti dubbi sulla sua origine.
Così, anziché togliere vigneti tipici e autoctoni per piantare distese di Sauvignon e Merlot, probabilmente dovremmo sottolineare le ricchezze dei nostri territori e delle tradizioni.
Prendiamo ad esempio la bottiglia.
Esiste quella borgognona e quella bordolese, l’albeisa e l’alsaziana, e poi esiste la bottiglia tipica del Jura,

regione nota soprattutto per i vini dolci di Chateau-Chalon nella AOC Arbois e denominati ‘vin jaune‘ (vini gialli) (‘giovane’ si traduce jeune) a base di savagnin, un’uva assimilabile ad un traminer alsaziano, e vinificati come uno sherry, ma senza aggiunta di alcool. Le barrique da 228 litri non vengono colmate, così da formare un velo sulla superficie del vino, analogamente al ‘flor’ della produzione dello sherry. Tradizionalmente viene tenuto in botte per sei anni e tre mesi, durante i quali il vino subisce un forte calo a causa dell’evaporazione.
Nel XVI secolo l’abate Clavelin ordinò ad una vetreria delle bottiglie speciali che tenessero conto del calo di un litro di vino dopo i sei anni e tre mesi necessari per il vin jaune. Fu così inventata la tipica bottiglia del Jura, la clavelin appunto, che contengono 62cl, e che entrarono nella normativa europea nel 1992.
Per gli altri vini, i rossi a base di trousseau e poulsard, i bianchi a base di chardonnay e pinot blanc, viene usata una normale bottiglia da 75cl, ma la cui forma ricorda molto quella della clavelin: più alta certamente, con la spalla molto meno pronunciata, ma di forma tronco-conica verso il basso, così che la dimensione del fondo è minore di quella all’altezza della spalla.
E’ proprio l’apertura di una bottiglia di bianco del Jura che mi ha dato lo spunto per questo articolo.
Les Bruyéres 2005 di Stephane Tissot è prodotto da chardonnay di coltivazione biodinamica, lieviti indigeni a nessuna filtrazione danno modo a questo vino di esprimere tutte le potenzialità del territorio del Jura.
L’improvvisa mineralità che si sprigiona dal bicchiere regala un attimo di smarrimento per quanto è evidente, e questo fa risaltare le note erbacee prima e inconfondibilmente di noci poi, un finale di camomilla.
Al palato si esalta la sua sapidità e la freschezza citronea, con una discreta lunghezza finale dove ritorna la camomilla e le noci.