L’alieno stava morendo.

Anche lui lo sapeva, fin da quando era stato portato all’interno di quella che sembrava una struttura di cura.

L’ingresso nell’atmosfera non era stato dei migliori della sua carriera di pilota, ma con un solo motore per governare già non esser rimbalzato via era stato un gran risultato. Era riuscito a mantenere stabile la navetta per un po’, quel tanto che bastava per non cadere proprio sulle cime montuose che scorrevano sotto di lui, o sugli oceani infiniti di quel pianeta. Aveva calcolato una traiettoria di massima, basandosi sugli strumenti ormai fuori scala, tracciando una rotta che lo portasse ad atterrare in un’area disabitata. Aveva dato le istruzioni al computer di bordo, poi si era avvolto nella rete di protezione, aspettando l’urto.

Ed alla fine o schianto era arrivato, l’alieno all’interno della navicella che ormai si sfaldava e rotolava e strisciava sul terreno veniva sbalzato da una parte all’altra, fino a che la rete protettiva non si era spezzata completamente, facendolo urtare contro i pannelli strumenti, contro le nervature di metallo, contro l’attrezzatura che avrebbe potuto salvarlo ed invece lo stava uccidendo.

Ad un tratto il movimento era cessato.

L’astronauta non aveva perduto i sensi completamente, e la maschera di respirazione che aveva avuto la prontezza di spirito di indossare prima di cadere gli aveva consentito di non morire soffocato nell’aria forse velenosa del pianeta.

Già ad una altezza di centomila chilometri era stato avvistato dagli occhi elettronici del mondo sottostante, occhi che avevano inviato le informazioni ai centri di comando e difesa. La sua caduta era stata seguita prima sui radar, poi da due aerei in assetto da guerra che lo accompagnarono, senza poterlo fermare, fino a che non aveva toccato terra. Dalla base più vicina erano arrivati dei mezzi di soccorso, scortati come sempre da alcune unità delle truppe di fanteria, ma appena arrivarono sul posto i soccorritori si accorsero che l’alieno, chiunque fosse, non sarebbe stato una minaccia per la loro sicurezza. Lo trovarono ad un centinaio di metri dalla navicella spaziale sbalzato fuori durante il rotolamento. Era sdraiato, scomposto, con gli strani arti piegati ad angoli che nessun dottore di nessun mondo avrebbe potuto considerare naturali. Lo trasportarono in ambulanza, e corsero più veloci che poterono verso l’ospedale militare. Arrivati alla clinica venne trasferito al reparto chirurgico, dove provarono a rianimarlo.

Certo, le medicine che per loro erano la salvezza, per l’alieno potevano essere la morte, ma a quel punto dovevano tentare il tutto per tutto. Pian piano lo spaziale aprì gli occhi, osservando i visi dei dottori attorno a lui, visi che dovevano apparirgli alieni quanto il suo appariva ai medici.

Una delle persone accanto a lui era vestito in modo diverso, ed il moribondo lo riconobbe subito come un militare, mentre classificò gli altri come appartenenti ad un gruppo di medici. Non riusciva a parlare, ma sentì quel che gli disse il militare:

-Da dove vieni?-

Lo sentì, non lo capì, certo lo comprese; sarebbe stata la prima domanda logica che un militare gli avrebbe porto, mentre uno dei dottori sicuramente gli stava chiedendo:

-Come ti senti?-

Non riusciva a parlare, vedeva solo la differenza tra lui e la razza di quel pianeta, una razza differente dalla sua ma in qualche modo analoga, un paio di arti superiori, due bulbi oculari ravvicinati, uno strano colore del viso, e quelli che dovevano certo essere dei padiglioni auricolari.

Respirava a fatica ormai, ed i medici si stavano dando da fare attorno agli strumenti tecnici della loro professione, simili a quelli che usavano sul suo pianeta.

‘Mi piacerebbe sapere il nome del pianeta sul quale sono morto’, pensava l’alieno.

Osservava i dottori che si muovevano vicino a lui, riusciva ora a vedere anche gli arti inferiori.

Dal camice spuntava una coda lunga e verde, prensile, che usavano per afferrare strumenti e compiere semplici gesti, come premere un interuttore o inserire un tubo in qualche macchinario. Il viso ricordava quello dei rettili del suo pianeta, ma con sembianze meno animali, più, come dire, più umane, quasi simili a lui.

L’alieno volse la testa verso uno dei dottori, e provò a prendergli una mano tra le sue.

Lo sforzo fu enorme per lui; il medico lo guardò, ben sapendo che l’alieno di lì a poco sarebbe morto.

Gli tenne la mano per tutto il tempo, e quando morì quell’Uomo non fu da solo.

-Ora del decesso, dieci e ventidue minuti. Lesioni interne ed insufficienza respiratoria. Nessuna terapia praticabile.-

I medici si tolsero le mascherine ed i camici, mentre due inservienti vennero a prelevare il corpo per trasportarlo in sala settoria seguiti dal militare. I medici si occupavano dei vivi; non appena moriva, un paziente perdeva per loro importanza.


– Poveraccio, disse il chirurgo che gli aveva tenuto la mano, morire chissà a quanti milioni di chilometri di distanza da casa, senza nemmeno conoscere il nome del posto dove sarai seppellito –

 -Si vero, rispose l’anestesista mentre si toglieva le protezioni dai piedi palmati, ma pensi che per lui avrebbe significato qualcosa se gli avessimo detto di trovarsi a New York, sul pianeta Terra?-

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