HemingwayPer scrivere di vino, come di altri argomenti, bisogna conoscere due cose fondamentali: l’argomento di cui si scrive e le tecniche di scrittura.

Non casualmente, tra i libri migliori che vi siano in circolazione, rimane a mio avviso insuperato Vino al Vino di Mario Soldati, blend perfetto tra la conoscenza del vino ed il saperlo narrare. 

Senza fare classifiche o elenchi, mai esaustivi, aggiungerei altri due libri: Il Ghiottone Errante, di Paolo Monelli con le illustrazioni di Giuseppe Novello, e Adventures on the Wine Route di Kermit Lynch; ne tralascio sicuramente altri, ma questi sono i primi che mi vengono in mente. E poi quel piccolo dimenticato capolavoro che è La Pacciada, di Gianni Brera insieme a Luigi Veronelli.

Gli autori erano esperti di vino? 

Paolo Monelli era un sommelier, oltre che un buongustaio, quindi aveva le conoscenze per la degustazione del vino, la sua produzione, le caratteristiche dei vitigni e dei territori. Non era quindi un vignaiolo, ma solo un degustatore.

Mario Soldati
Mario Soldati

Lynch è tutt’ora un venditore, il suo libro è il racconto dei suoi viaggi in Francia per trovare nuovi vini da vendere, un libro piacevolissimo da leggere (non so se sia mai uscita un’edizione in italiano) dove, ancora una volta, oltre che di vino si parla di persone e di territorio.

Non si sa, io non lo so, di nessuno dei tre se abbiano mai coltivato una vigna, posseduto una cantina, sudato nell’attesa della partenza di una fermentazione.

Quel che è certo che sapevano scrivere, avevano studiato per imparare a scrivere, si sono piegati sui libri per capire cosa fosse la scrittura. C’è studio e dedizione, c’è mestiere e professionalità.

Dunque, per scrivere di vino forse non è necessario coltivare una vigna, sebbene questo porterebbe un gran valore aggiunto. Certo è che se uno scrittore si mettesse a fare il vino, gli rimarrebbe ben poco tempo per scrivere; e se un vignaiolo si mettesse a scrivere, forse rischierebbe di non fare un buon vino. 

Sono due attività che richiedono tempo ed impegno.

Riviste che parlano di vino ne esistono tante, alcune meglio alcune peggio, come tutto. La stessa cosa vale per le migliaia di blog, solo alcuni sono letti in tutto il mondo e le votazioni che compaiono sulle loro pagine determinano la fortuna o la sfortuna di questa o quell’etichetta. Se sia giusto o sbagliato, non è una decisione che io possa prendere: chi vende un mezzo bancale in più grazie ad una buona votazione vi dirà, a ragione, che queste recensioni sono importanti, e sfido qualunque produttore serio a dichiarare di non sentirsi orgoglioso quando il proprio vino va a finire in una classifica importante, grappoli, stelle o bicchieri che siano.

Quindi, ci sono due categorie di persone.

Raymond Carver
Raymond Carver

Sono i vignaioli, quelli che il vino lo fanno, lo mettono in bottiglia insieme alle proprie fatiche, quelli che aprono una propria bottiglia di cinque, sei anni prima, con trepidazione, chiedendosi se abbiano fatto davvero quel buon lavoro che, all’epoca, erano certi di aver fatto.

La seconda è composta da quelli che il vino vogliono raccontarlo, che cercano le parole per descriverlo cercando di non usare sempre le stesse, che tentano di mettere tra le righe qualche goccia di vino per far assaggiare al lettore la piacevolezza di una bottiglia prima che questi la stappi.

Per entrambe, ci sono molti modi di fare il lavoro.

C’è l’articolo da degustazione, che serve solo per fare cassa. Non è detto che sia un cattivo articolo, ma sicuramente non ha comportato molta fatica, ha uno scopo prettamente commerciale, quindi deve essere il più diretto possibile: colore, naso, gusto, finale, votazione. 

Analogamente, alcuni vignaioli producono un vino base meno complesso, immediato, come si dice in gergo di pronta beva. Non è un male, anzi: alla fine del mese tutti dobbiamo pagare i conti, e se lo si fa in modo onesto è anche una maniera per far conoscere la propria etichetta in ambienti meno sofisticati.

C’è l’articolo di comparazione, resoconti di verticali storiche in cui l’autore si sofferma a far capire le differenze tra le annate, le difficoltà incontrate un anno e quelle incontrate l’anno successivo, l’interpretazione delle profondità aromatiche e gustative, dove il vignaiolo entra ma solo in obliquo. 

C’è l’articolo più complesso, infine, o il libro, frutto di ricerca, di viaggi, di serate trascorse assieme ad un produttore, o in enoteca o al ristorante, un lavoro faticoso, fatto di raccolta, sintesi, e ricerca di parole, così come il vignaiolo quando sa di avere tra le mani un’ottima uva e vuole spremerne una grande annata. 

Ognuno ha il proprio compito, se viene fatto professionalmente la qualità è evidente, e nel caso in cui il vino sia per tutti i giorni e nel caso in cui sia da aprire dopo anni di attesa in botte ed in  bottiglia. 

Ugualmente vale per l’opera scritta, da leggere velocemente per sapere come sia quel vino appena imbottigliato o da assaporare pian piano per scoprire territori, per ascoltare le persone, per volare un po’ più in alto. 

Per imparare a fare il vignaiolo bisogna studiare continuamente, imparare dai propri errori, sperimentare con accortezza, ascoltare i consigli di chi ne sa di più, di chi fa vino da più tempo, da chi ha già fatto errori e trovato soluzioni.

Ma pure per scrivere bisogna imparare e studiare: non basta sedersi di fronte ad una tastiera e mettere insieme delle parole. .

Se voglio imparare a suonare il pianoforte devo andare a scuola di pianoforte, se voglio imparare a dipingere andrò a scuola di pittura: la stessa cosa dovrò fare se voglio imparare a scrivere. 

Raymond Carver era solito dire che lo scrittore deve essere onesto e non deve ‘…usare trucchi da quattro soldi‘. Significa che se si vuole scrivere una storia bisogna essere diretti, non fuorviare il lettore, che sospenderà certo l’incredulità ma non l’indignazione di essere preso in giro, come con certi romanzi best seller. E tra i migliori vignerons, una delle regole è evitare di aggiungere, è la Leggerezza, non a caso titolo della prima delle Lezioni Americane di Italo Calvino.

Nel 2006, Giorgio Bocca sul Venderdì di Repubblica scriveva, accomunando le mode del vino, dei libri, della comunicazione:  “….Ci sono delle macchine che danno al vino la gradazione alcolica che si vuole, di tredici, di quattordici gradi, che un tempo erano vini da dessert. E’ successo nei vini come nelle medicine, come nei libri, come in tutto: abbondanza e imbonitura. Ogni giorno il bestseller americano che ha venduto un milione di copie, ogni giorno qualche allegra ragazzina di provincia che racconta i suoi amori.”

Torniamo allora alla dote fondamentale, di un vignaiolo, di uno scrittore, di un blogger, ma anche di un vigile urbano o di un elettricista: l’onestà del proprio lavoro, non si deve barare.

La differenza la fa la sensibilità personale, il taglio che si vuol dare al proprio lavoro, la costanza e la resistenza alla stanchezza: questo vale per entrambe le professioni, per entrambe le attività. Ed anche per tutte le altre.

Non sarebbe male che un wine-writer, o anche un semplice wine blogger, passasse almeno una settimana in una vigna, vivendo assieme al vignaiolo. 

Oppure, semplicemente, ognuno continui a fare quello che vuole fare e che sa fare meglio, con onestà intellettuale e senza innalzarsi a Vate, ma guardando il lavoro dell’altro per quel che è: il frutto di una, magari piccola, fatica.

Nota: ero indeciso se pubblicare questo post oggi o più avanti. Oggi si dovrebbe, ognuno con le proprie capacità, stare vicino a quelle persone che hanno visto i propri figli, le madri, i fratelli, i mariti, morire in mare a Lampedusa. Questo è solo un minuscolo blog che parla di vino, non incide su quasi niente e su quasi nessuno, tranne che su me stesso. Così per adesso le mie emozioni, le mie considerazioni, le terrò per me. Ma se qualcuno è arrivato fin qui a leggere, faccia un piccolo pensiero su quanto è accaduto, oggi nel XXI secolo, ai confini della civiltà occidentale. E non chiamiamoli migranti. Erano persone, esseri umani, donne, bambini, uomini, come voi e come me. 

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