wine criticsNon mi considero certo un critico del vino, né tantomeno un degustatore: sono semplicemente un piccolo wine blogger che segue una propria passione, scrivendo in modo irregolare sul proprio blog.
Ma a volte, specie dopo le reazioni ad un mio post, mi domando se io sia proprio obiettivo nella scelta dei vini di cui parlo e se io sia super partes quando li degusto.
Beh, la risposta fondamentalmente è No, bello pieno. Poiché descrivo i vini che acquisto (e per quelli regalati metto un disclaimer che avvisa i lettori), cerco di spendere bene i miei soldi; normalmente compro i vini che ho assaggiato ad uno degli eventi enologici a cui partecipo.
Certo, chi fa di questo mestiere un lavoro, mi riferisco soprattutto ai wine critics americani più famosi, ha la necessità di tenere un profilo alto ed il più possibile obiettivo.
Negli ultimi giorni alcuni articoli mi hanno fatto pensare all’argomento.
Leggendoli appare ovvio che si, il proprio gusto personale incide sulla valutazione di un vino.
Una malvasia macerata 8 giorni sulle bucce non può avere, tra i propri pregi, l’equilibrio, come invece lo possiede un Cabernet Sauvignon della California.
Dunque, quale sarà migliore o, e qui entriamo nel marketing, a quale dei due dare un punteggio alto?
Il primo vino non riuscirà ad avere, in un panel internazionale di degustazione, punteggi superiori ai 90/100, mentre un Cab made in USA riesce spesso ad arrivare oltre i 94/100.
Ho preso due esempi estremi, lo so.
Le scelte dei consumatori vengono però guidate daiwine critics punteggi che si trovano nelle riviste specializzate, nelle guide, negli articoli settimanali dei grandi quotidiani d’oltreoceano, spingendo loro malgrado (o apposta) i produttori ad adeguarsi ad uno standard che consenta di vendere un paio di bancali in più.
Il blogger Jeremy Parzen, meglio noto come Do Bianchi, pur non concordando con questo metodo, riportando l’opinione delle industrie del vino pone un punto però importante: “se un vino ha un punteggio minore di 90 punti, non riesci a venderlo; se arriva oltre i 90, puoi trovarlo sugli scaffali“.
L’obiettività nella critica è a mio avviso abbastanza irraggiungibile, quando si parla di argomenti che riguardano le sensazioni di ognuno.
Un quadro può piacere ad un gruppo di persone e dare il voltastomaco ad un altro; lo stesso accade per un libro o una canzone: ovvio che accada ancor di più per un vino, specialmente se chi ne usufruisce non ha dimestichezza tecnica con l’argomento.
Il critico però, specialmente se i suoi post o i suoi articoli cartacei hanno una grande diffusione,  dovrebbe essere il più distaccato possibile, ed a parte errori di esecuzione o difetti ci sono alcuni parametri che dovrebbero essere condivisi da tutti, come appunto l’equilibrio, mentre la muscolosità fruttata non eccessiva ricade già nei parametri personali.
Nella rubrica settimanale del New York Times, Eric Asimov riprende la questione scrivendo che un critico non può, e non deve, essere un arbitro imparziale durante una degustazione, ma piuttosto una guida, che “ispiri curiosità e prochi discussioni e dibattiti” sul vino recensito, in modo da “aiutare il consumatore a diventare la sua stessa miglior autorità”.
Consumatore che, però, si lascerà sempre condizionare da quel che legge in giro, da quel che ascolta in radio o vede in televisione.
Ogni critico quindi dovrebbe sviluppare una propria cifra stilistica riconoscibile e non lasciarsi condurre dal ‘wine populism’, con una esplicita bacchettata a riviste come Wine Spectator.
Aggiunge Jamie Goode su Wineanorak, che il critico di vino dovrebbe avere una mentalità aperta e “riconoscere i vini ben fatti nel loro stile”.
E’ perciò necessario per il critico ampliare l’insieme degli stili conosciuti ed assaggiati.
Cosa che ancora io fortunatamente sono ben lungi da raggiungere.

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