Il bus della linea 892 è una sessione plenaria dell’ONU. Se si eccettua la compagine dei pensionati, l’italiano è minoranza attiva in una plenitudo gentium che spazia dalle Ande a Mindanao passando per Dacia e Dakar, con folta rappresentanza dell’Internazionale del Pellegrino.

I più si dedicano senza distinzioni di età e cittadinanza all’effricazione dello smàrfon; io mi conformo invece alla maschera del vecchio dentro e ho tra le mani un remainder comprato a tre euri, ispirato da un amico bibliovoro.

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Pensieri canicolari da una fermata dell’autobus

Un saggio breve e denso. Anno Domini MCMLXVI[1], l’autore – professore di semantica storica e storia della psicologia collettiva – trattò così un tema che non è passato di moda:

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Stiamo entrando in un tempo in cui il compimento dell’unità passa attraverso il riconoscimento e la consacrazione della diversità. Così, assai al di là della coesistenza, quello che più importa per un progresso dell’unità delle società umane nella «terra degli uomini» è che ogni cultura esprima autenticamente il proprio genio e che lo scambio trasformi senza alterare.[/wc_box]

E poi:

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È un’innocenza comune che dobbiamo ritrovare adesso, ossia la vera comunicazione, lo scambio, il dono, il medicamento semplice nella certezza che la nostra ricchezza è oggi fatta della diversità degli altri. Questo ci deve costringere a liberarci da due dei meccanismi mentali che hanno indurito entro di noi le moderne vertigini della «scoperta del mondo»: gli schematismi dell’universale e l’enciclopedismo[/wc_box]

E ancora:

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Siamo proprio sicuri che nella vita internazionale a scala mondiale del nostro tempo è necessario un unico vocabolario? Sul piano degli scambi tecnologici e per far presto, certamente; ma guardiamoci bene dal confondere tecnologia e conoscenza: soprattutto nel settore delle scienze umane e per una comunicazione internazionale che sia davvero «co-noscenza»…[/wc_box]

Per concludere:

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Ha più valore una pluralità di espressioni che non una serie di riduzioni tanto più atrofizzatrici quanto più hanno la pretesa di ricoprire con la moda di un termine giovane differentissime esperienze.[/wc_box]

Mi sovvengono la iattanza e la noia del monismo, del riduzionismo, dell’enciclopedismo; il malinteso per cui la conservazione e la crescita di una cultura passerebbero, a seconda delle mode e delle fazioni, tra i due estremi dell’inculturazione e dell’universalismo. Mi sovviene la storia biascicata da chi la ignora o ne disconosce il senso di lucidità di coscienza del passato nel presente.[2]

Penso all’892 che stufa i passeggeri a fuoco lento senza distinzioni di origine, accanendosi però sugli olandesi che sono i più belli e anche i più veloci a rosolare.

Polverosità del quotidiano percorso

Penso che un paio di giorni prima mi ero impantanato nella scelta di un Brunello che fosse il più bello, zompando di Canalicchi in Fornaci, tra terre rosse e Castelnuovo, vigne cittadine e Montosoli, considerando per caso anche un brunelloide pazzo e paffuto, e tutto questo senza venirne a capo.

Finché un moto ingenuo di contentezza mi aveva scosso al pensiero che di vero non vi è nulla fuorché un campo di variazione, un indice di possibilità, e che più quello è ampio, più io sono contento.

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E ora penso all’inutile pellicolarità del presente senza passato. Alla bulimia degli istanti, degli ovunque e dei pleonasmi. Al come se non ci fosse un domani. A chi pure d’estate presenta superfetazioni di bottiglie e impiattamenti (su sfondi opportunamente estivi). Tutte istantanee, tutti istantanei, tutte e tutti qui e ora, senza storia. Salute e buone vacanze. 

[1] A. Dupront, L’Acculturazione. Per un nuovo rapporto tra ricerca storica e scienze umane. Einaudi, Torino 1966.

[2] Per l’autore non esiste “…aucune existence du présent sans présence du passé, et donc aucune lucidité du présent sans présence du passé…” (op. cit., pag. 22).

3 pensiero su “Benvenuto Brunello 2016 – Off Track #1”
  1. Ho piu timore – a guardarmi attorno – che lo scambio alteri senza trasformare. Ad ogni buon conto “acculturazione” mi suona ancora fin troppo “aggressive’ come parola, termine che traluce ancora una certa sottotraccia di prevaricazione dello schema monolitico universal-enciclopedista; del tipo una categoria d’antropologi occidentalisti che si propongono d’acculturare dall’alto popoli, mentalità, scienze, spiritualità e culture niente affatto occidentaliformi/occidentalimorfiche. Ecco, allora preferisco un’idea ed una pratica d’etnocentrismo piuttosto, così come propugnate anni fa da Richard Rorty in molte delle sue conferenze e libri. Comunque in questi casi come in tanti altri casi analoghi, la bibbia laica d’un sano relativismo esercitato sia in privato che in pubblico cui propongo di fare riferimento è sempre al Feyerabend di Against Method. Ciaoni & bacioni. gae

    1. Ciao Gae, un commento in perfetto stile. Emanuele risponderà
      Per quel che può valere il mio commento, il mio pensiero è che la parola ‘cultura’ è spesso usata come scusa per giustificazioni di ogni tipo, così come la parola ‘tradizione’. La difesa della cultura e della tradizione sono la prima giustificazione per ogni guerra.
      Culture e tradizioni cambiano, così come cambia l’etica e la morale, così come cambiano i confini delle nazioni.
      Parlare di cultura e tradizione dei popoli è solo un modo per inquadrare ed irreggimentare all’interno di quei confini, dentro quelle nazioni.
      Che ognuno pensi quel che vuole, creandosi la propria cultura e la propria tradizione aiutato dalle persone che incontra, con cui parla, con cui ama, con cui canta, con cui beve e mangia.
      Fosse così, che più o meno credo sia quel che vuoi dire tu, sarebbe un bel mondo davvero.
      Grazie di essere passato tra le Storie del Vino.

    2. Ciao Gae, ripeto quanto anticipato su FB: il tuo è un timore fondato ma “preliminare”. La lettura del saggio fugherebbe dubbi e timori: la posizione di Dupront è critica, non apologetica. L’autore dedica buona parte della prima sezione alla logopoiesi e ai condizionamenti che la segnarono – il termine denota bene il tempo, i pregiudizi, la mentalità, in breve il testo di cultura nel quale avvenne la sua genesi a opera di storici anglofoni.
      Tra gli aspetti più interessanti e sottili vi è quello del riconoscimento tra culture, comprensivo dei principi non mutuabili e non trattabili che le distinguono e rendono (deo gratias) non assolutamente osmotiche, non omologabili; principio che, secondo me, serve bene allo scopo di sgonfiare molte bolle transglobaliste, molte velleità di liofilizzati multiculturali, molte vulgate multi-kulti (il più delle volte tutt’altro che ingenue e disinteressate) e fissa il limite di civiltà tra testi di cultura che si conoscono, si riconoscono nelle diverse identità, si inquadrano come insiemi passibili di intersezione solo per determinati elementi, non si forzano a intersecarsi negli altri. In questo senso, Dupront è inequivocabile: l’acculturazione è, almeno nella sua accezione originaria, violenza. Come del resto l’inculturazione.

      Saluti da Arendal, vicino Lilla London.

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