
Il notorio quartetto toscano si è esibito, come suole da qualche anno, in un periodo tra i più intensi per cultori e addetti ai lavori: le rassegne dedicate a Chianti Classico, Brunello (con Rosso, Sant’Antimo e Moscadello), Nobile di Montepulciano e Vernaccia di San Gimignano, organizzate per la presentazione delle nuove annate, esaltano i quattro virtuosi in rapida successione, come in un decastico dal ritmo vorticoso. Così si dà vita a un tour de force tanto colto, quanto estenuante.
Simili eventi, e in tale scansione, drenano attenzioni ed energie. Se ne esce esausti: la fine di giornata a Chianti Collection e a Benvenuto Brunello è segnata da un’abulica sonnolenza, rimembranza delle narcolessie occasionali dopo un esame universitario particolarmente ostico o un concerto di musica aleatoria.
Ecco: Benvenuto Brunello è come Bruno Maderna. Da un’anteprima del Prosecco, un esame di Idrologia Medica o l’Italiana in Algeri non si può uscire altrettanto provati.
Tornato a casa dalla missione nel Granducato, oltretutto recandone qualche souvenir di qualità, il primo pensiero è stato quello di condividere con l’uditorio domestico un brano del quartetto toscano. Ma è bastata la sola idea del sangiovese a rinnovare l’obnubilamento di qualche sera prima, durante una cena solitaria e surreale, in condizioni e aspetto che intuivo simili a quelli dei buveurs d’absinthe dell’iconografia degasiana. No, meglio optare per bottiglie più frivole e ricondurre il mondo alla sua primigenia levità.
Cinque vini popolari per due vendemmie che, ironia della sorte, sono state protagoniste della maratona di Montalcino, ovvero la 2006 della Riserva e di alcune selezioni, e la 2007. Fondi e rimasugli di cantina, in apparenza, per uno sberleffo all’aristocrazia (e alla musica colta). E invece sono stati cinque pezzi facili ed efficaci, una quarantina di battute ciascuno per riportarci ai procedimenti tonali, a relazioni armoniche e melodiche. Come se, a titolo d’esempio, Stravinskij avesse fatto un passo a ritroso dai Threni al Pulcinella.
Sauvignon Camillo Donati 2007. Pasta brisée, frollini, grano cotto, un barlume d’erbe amare, salamoia, foglie d’ulivo, cicoria e bacon. Al secondo giro si aggiungono senape, ginestra, farro cotto, lupino e la pungenza amarostica della genziana. L’ulivo è virato in sapone d’Aleppo. Bocca: l’attacco è molto sapido e con chiare venature amare, l’acidità composta ma ben presente. Le bolle, arrotondate dalla lunga sosta, donano ulteriore slancio a un costrutto denso, non pesante, in cui spicca la parte minerale (sasso, pomice) su quella di frutta macerata e preparata (mostarda), su quella grassa e carnosa (bollito, trippa), su una notevole buccia d’agrume candita verso il finale. La struttura è importante ma scandita in un allegro cantabile, senza ricercati colpi a effetto o i solecismi delle fermentazioni da battaglia. Apprezzabili lunghezza e persistenza, con il quarto tempo segnato dall’eco fruttata, quasi un ritorno agli aromi della prima maturità: pera coscia, mela golden, loto e nespola, e uno sfondo sulfureo aereo e benefico (acqua termale). Dopo un giorno (con ritappatura) il gas non è scomparso. Si sono intensificati gli aromi di carni bollite, Weisswurst, legumi ed è comparsa la polpa di pesca matura. Al gusto si staglia l’impronta sapida, che caratterizza la persistenza e si dissolve in pulizia.

Tournesol 2007 Lusenti. Prime impressioni: ancora rubino impenetrabile, naso sanguigno, ferrigno e al contempo di prugna secca e salume crudo (o la sua suggestione: il vino è stato accompagnato da fette di strolghino) e cotto (cotechino), netti anche il guanciale, il pepe e la paprika, poi nappa e inchiostro di china. Sullo sfondo, ben composti e nitidi, liquirizia dolce, carruba e ribes nero. Al gusto risalta subito la giocosa combinazione di cremosità delle bollicine e grassezza di fondo del sorso, ma è la sensazione di un istante: i tannini minuti, aculeati, colmano la bocca di un’appagante nettezza e reclamano con decisione un cibo col quale misurarsi, in assenza del quale lasciano il campo al solito pepe, insieme a ematite e frutti neri. A bicchiere vuoto regala un colpo a effetto: mela annurca, corteccia di betulla, tè gunpowder e visciola.
Cordenossa, annata non indicata (tappo MP 01 – 6), Emilio Bulfon. Divertente, espressionistico. Fragola candita o sciroppata e liquirizia amara in partenza, poi sensazioni di dolcezza – contribuisce un residuo zuccherino – che rimanda a pasta frolla, crostata di amarena, mirtillo rosso. Vira quindi a rabarbaro e fegato, mela granata e conserva di pomodoro. L’acidità è decidua, I tannini sono fondenti e sembrano stemperarsi in un finale piacevolmente terroso e dolce nel quale il vino non si scompone, né si congeda con gravami poco piacevoli.
Prosecco dei Colli Trevigiani 2007 (L0408), Casa Coste Piane. Di questo vino si scrive moltissimo, complice la straordinaria buvabilité che mette solitamente d’accordo passatisti e modernisti, colfondisti e puristi. Ciò è segno di qualità e va a suo grande merito. Apertura: nonostante l’età ha conservato integra la sua verve carbonica. Naso di albedo e agrumi maturi, fiori bianchi, pera, mela golden, salvia e maggiorana. Al gusto prima il sale, poi freschi ricordi di frutta. Salinità corroborante e strenua, che si distende in allungo a celebrare prima, staccare e doppiare poi le sensazioni gustative, qui più morbide e mature che in annate giovani: buccia d’uva, scorza d’arancia candita, buccia di mela, sale e mirabella. Il vino è vivo, nel suo momento apicale. Con la sosta nel calice la nota minerale si approfondisce e stratifica (argilla, das, pozzolana), quella organica si arricchisce di tiglio e camomilla. Il finale allude a pera williams e fiori bianchi, ma è il saliente sapido a imprimersi al gusto e nella memoria.
Montemarino 2006 Cascina degli Ulivi.
Sulla ricorrenza di bottiglie rivelatesi difettose (ossidazioni precoci, vizi del tappo, lasciti di fermentazioni forse poco ordinate) mi piacerebbe confrontarmi con altri estimatori di Stefano Bellotti. Questa, peraltro, condona le delusioni: un’esperienza di grande soddisfazione.
Da uve cortese di unica vigna, vinificate in botti di rovere da 15 hl con tre giorni di macerazione. 11 mesi sulle fecce fini. Il vino ispira descrizioni ardimentose. È oblungo per forma e proiezione e non esce allo scoperto: balugina. Al naso ha uno sbuffo pungente, poi ammutolisce e solo dopo giusta ossigenazione si offre placido, quasi lasco, fiori gialli e mela golden. Vanno attesi, a qualche distanza, gli inseguitori: cappero fresco, mandorla, macedonia di frutta gialla e il primo cenno di una sensazione grassa, opulenta e matura, tra crema e frutto. Serve un’ora affinché il tenore e la tensione aumentino, e perché la nota onctueux si effonda in tutta la sua bontà: arachide, grasso di jamón de bellota, composta di pera, curry giallo, zenzero. Al gusto parrebbe in principio cedevole e dimesso, ma la china è solo illusoria e il liquido, in realtà, si muove su un falsopiano. E al suo tempo, quindi lento. La sua freschezza è levigata, carezzevole, per qualità alludendo al dolce (sciroppo di ananas, succo d’arancia concentrato). È fusa o sottesa al supporto sapido, di certo più emergente e sensibile. L’ossidazione non ha minimamente smagliato tensione e definizione del vino. In breve, un intarsio di riscontri gustativi mimetici, originali e stratificati in uno sviluppo gustativo coeso e unitario.
Un giorno dopo l’apertura le note grasse e mature si rivelano più ampie (frutta sciroppata, miele e presentimenti “glicerici”). Ancora più articolata la percezione gustativa in persistenza, con sasso, salvia, verbena e mandarino. Due giorni dopo non si è spostato di un passo.
Stefano Belotti afferma che “il vino non lo fa, ma lo accompagna nel suo divenire”,
a naso credo che il Montemarino, tra i suoi vini, sia bevibile
Non conosco il Montemarino, una buona occasione per assaggiarlo anche io. Grazie del passaggio, Andrea
Montemarino non mi ha mai riservato delusioni. Quelle, semmai, sono venute da qualche rosso e in un paio di casi da Filagnotti.